Coloro che, avendo fatto ritorno dall’esilio di Babilonia, si ritrovarono a ricostruire Israele non avevano solo le strutture da rimettere in piedi, ma anche un nuovo volto di Dio da riconoscere: non un Dio che li aveva puniti e diseredati, ma che li aveva “provati” perché riconoscessero che senza Dio non c’è futuro. Un popolo, dunque, invitato a crescere e a camminare, avendo intuito un nuovo stile di comprensione della convivenza e di responsabilità nel mondo. Prima dell'esilio, gli israeliti credevano di essere gli unici uomini giusti, fedeli a Dio, che avevano stabilito leggi severe per impedire rapporti con stranieri che non conoscevano il Signore, e quindi servivano agli idoli. Durante l'esilio con sorpresa conoscono stranieri diversi dal proprio immaginario: generosi, ospitali, con un'alta moralità familiare e responsabilità sociale; anzi spesso persone migliori dei propri compatrioti. Così, in questo nuovo contesto, ripensano alla propria religiosità, reinterpretando la creazione come il grande dono che Dio fa a tutta l'umanità; un’umanità costituita da giusti che vengono sia dal mondo ebraico che da quello pagano. Si capisce meglio, allora, l'immagine che il profeta Isaia prospetta: la storia diventa il grande banchetto per tutti i popoli e non solo per alcuni. E il banchetto raffinato è offerto da Dio stesso. Anche S.Paolo richiama un certo modo di vivere attento a non dare scandalo con un comportamento non adeguato, perché è questione seria la testimonianza che il popolo di Dio è chiamato a offrire. Paolo non si scandalizza nel riconoscere che nel mondo c'è il male, ma ricorda a coloro che sono stati battezzati che sono stati "lavati, santificati, giustificati" per la fede in Gesù nello Spirito Santo. Pertanto non devono rendere vano il dono che è stato loro elargito e non per merito. Un dono che se è riconosciuto non può che comprendere un impegno. Ed è questo a costituire il regno di Dio.

R. Guttuso “Contadini di Sicilia” 1950 E come se ne parla? Dovendone parlare, facendo riferimento all’attualità, Gesù ne parla con parabole, e paragona il Regno dei cieli al tesoro, alla perla di grande valore, a una rete da pesca -ma anche alla vigna, al lievito, e così via-, in modo che anche la gente più semplice e meno introdotta nelle questioni teologiche può intendere. Gesù però non si limita a raccontare, si accerta che la sua parola sia compresa, perché si tratta di cose essenziali. Spesso, infatti, succede che Gesù lo si fraintenda, e poi si usi contro di lui quello che si è malamente inteso. Ma Gesù fa in questo modo anche per non lasciare che siano solo “gli addetti ai lavori” a interpretare (nel caso del vangelo: scribi e farisei), solo per avere privilegi: Dio, con la Sua Parola, parla a ciascuno, non sempre con la necessità di sedicenti intermediari. Allora occorre dire che queste parabole, che parlano del regno, un regno che è già in atto, è come se rimandassero a un appuntamento; un appuntamento di grande responsabilità, per il quale Gesù ci tiene a dire che, con la nostra libertà, possiamo giocarci non solo questa vita, ma l'eternità. Detto così sembra un po’ forte. Ma questo non ci deve disturbare: per quel che sappiamo, sarà solo Dio che valuterà la nostra fragilità e la nostra libertà. In conclusione: nella vita ognuno di noi è chiamato a scoprire la bellezza di Dio e a sentire il bisogno di ripensarsi in Lui. In questo impasto di scoperta e impegno, si potrà arrivare a ritrovare il senso dell'esistenza, ciò che Dio ci ha offerto e ciò che abbiamo accolto. dgc
Un regno di Dio che l’evangelista Matteo (in 13,44ss.) chiama “dei cieli” (da buon ebreo, preferisce non nominare il nome di Dio per rispetto). E a noi viene in mente subito il Paradiso. Però non dobbiamo correre troppo veloci: certo, il Paradiso è dove Dio regnerà e per sempre. Ma se questo “regno” (di Dio o dei cieli) è eterno, significa che non riguarda solo il futuro, il tempo che verrà. Per come Gesù sembra intenderla questo regno riguarda già l’adesso; dunque riguarda anche noi e il nostro oggi.

