In questa VIII domenica dopo Pentecoste la Parola di Dio considera la vicenda che riguarda la storia del popolo di Israele a conclusione dell’esperienza dei Giudici (“occasionali” difensori del popolo con eccezionali poteri, suscitati da Dio). In quel momento storico Israele vuole un re. Quale re? Non è Dio il suo Re? Direi che la questione apre a interessanti provocazioni anche per l’oggi: È preferibile che ci sia chi assume il ruolo di unico decisore per tutti o che sia il popolo, sebbene a fatica, a decidere? Quali criteri dovrebbero identificare la figura che assume quel ruolo? Una ideologia (politica) può essere riconosciuta buona da tutti e capace di esprimere le esigenze di ciascuna coscienza? Teocrazia, democrazia, autocrazia…cosa è meglio? Ma torniamo alla Parola. Il testo di 1 Samuele (8,1-22) ci racconta come il popolo vuole un re, che possa guidarlo nelle battaglie; Israele vuole essere come tutti gli altri popoli. La memoria del popolo di Dio è tanto corta! Non rammenta che proprio per non essere più servo di un faraone, che si faceva Dio, se ne è andato dall’Egitto; non si ricorda più che la scelta proprio di questo popolo l’ha fatta Dio, e non perché fosse il più forte o il migliore o il più numeroso…ma perché Dio l’ha deciso, Lui solo, e perché fosse il segno di questa particolare predilezione (amore) da parte di Dio verso ogni uomo. La memoria di quel popolo è troppo corta o forse gli fa comodo questo modo di fare: essere come gli altri permette anche dei vantaggi; il fatto di essere il popolo di Dio costringe a comportarsi in un determinato modo, e questo -per certi aspetti- è limitante: rispettare i comandamenti, celebrare con fedeltà il culto, non avere ambizioni che soddisfino il desiderio di potere che c’è nel cuore umano…

H. Rigaud “Ritratto di Luigi XIV con gli abiti dell'incoronazione” (part.), 1701, Parigi Ecco perché Gesù, davanti alla provocazione ingannevole di schierarsi apertamente pro o contro il potere costituito, risponde in maniera sorprendente. Quel giorno, infatti, farisei ed erodiani vanno da lui con una moneta riportante l’immagine e l’iscrizione di Cesare, e gli chiedono se è giusto pagare il tributo (cfr Mt 22,15-22). Che ipocriti! Non solo perché questa domanda è fatta nel tempio e loro sono i primi a trasgredire le regole facendo una cosa vietata: introdurre nel luogo sacro una cosa impura (i cambiavalute stavano fuori proprio per questo), ma perché il loro intento era davvero meschino: mettere in imbarazzo Gesù. Ma Gesù non si fa mettere nel sacco, anzi, rilancia, e la provocazione diventa un boomerang: “restituite a Cesare quel che è suo, così come a Dio!”. Che la moneta fosse di Cesare sta bene. Ma cos’è di Dio? E, soprattutto, cosa significa? Il popolo è di Dio. E loro, i capi, lo avevano dirottato; avevano insegnato a perseguire obiettivi che si discostavano dall’insegnamento e dalle intenzioni di Dio; di quel Dio che li aveva liberati dalla servitù dell’Egitto per offrire loro la libertà di determinare la scelta su come orientare la propria esistenza ed essere richiamo per tutti gli altri uomini. Ancora oggi, dopo tanti anni e tante vicende, facciamo fatica a comprendere. Riguardo alle scelte politiche, per esempio: anziché sostenere e promuovere i principi e le basi della democrazia (che si fonda sulla sovranità popolare), siamo tentati di delegare all’uno o all’altro “comandante” le decisioni, semplicemente perché almeno così ci svincoliamo dalla fatica di dover pensare, riflettere, approfondire, confrontarci, condividere… fino a cedere la nostra “sovranità”, solo perché ci convincono, ci affascinano, ci rapiscono certi slogan. Riguardo alle scelte “religiose” ancora facciamo fatica a riconoscerci popolo; preferiamo optare per un orientamento personalistico e individualista, in cui scegliamo criticare, per non metterci la faccia; sottolineare ciò che non va, senza offrire il nostro contributo (spesso utilizzando alibi ai quali nemmeno noi crediamo); stare a guardare anziché sostenerci gli uni gli altri, condividendo. dgc

